"Dopo Charlie Hebdo: è scontro di civiltà?"
Ha introdotto Luigi Capogrossi Colognesi, professore emerito di Diritto romano all'Università La Sapienza di Roma
Sul tema, pubblichiamo qui una riflessione di Giancarla Babino, invitando chi lo vuole ad intervenire nel dibattito.
PERCHE' NON
"SIAMO TUTTI CHARLIE HEBDO"
L’attacco disumano
del terrorismo fondamentalista a Charlie Hebdo ha colpito stavolta la nazione che ha la laicità nella sua
bandiera e la libertà di espressione come uno dei suoi capisaldi. La Francia,
che vieta per legge i simboli religiosi e che impone le pareti deserte alla
sua Repubblica, nella convinzione che il diritto sia la migliore garanzia –
l’unica – di tutela per tutti, per i credenti e per i non credenti.
Charlie Hebdo non è un giornale
qualunque, e per chi ama le vignette, le strisce, quel meraviglioso, fulmineo e
geniale modo di esprimersi che sono le bande
dessinée, è sempre stato il punto di riferimento massimo, ancor più del suo
compagno, ben più robustamente finanziato, il Canard Enchainé.
Degli autori morti
a Parigi, la rivista Italiana Linus pubblicava soprattutto Wolinski, e le sue donne, sinuose,
licenziose e deliziose. Wolinski appariva in Italia anche su Il Male e su Cuore, tra gli anni Settanta e
Novanta.
Ad essere colpito a
morte stavolta è stato dunque il
riso e, come ricordava Umberto Eco nel suo “Il nome della rosa” : “ Il riso libera il villano dalla paura
del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e
stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi
della paura del diavolo è sapienza...”
Questa frase è contenuta
nel dialogo fra Jorge e Guglielmo,
due frati nel Medioevo, quando Jorge confessa la sua colpevolezza nella lunga catena di omicidi dell’abbazia
cristiana, avvenuta proprio per la pericolosità del riso contenuta in un libro.
Il riferimento può dunque adattarsi benissimo al nuovo medioevo che
stiamo vivendo, e ai suoi integralismi.
Cosa c’è infatti di
più comune, in Occidente, della carta stampata?
Eppure, se
rimaniamo attoniti davanti a una
redazione trasformata in un mattatoio, e ripensiamo all’elenco dei recenti
bersagli del terrorismo fondamentalista: una scuola a Tolosa; un museo ebraico
a Bruxelles; un caffè a Sidney; il parlamento a Ottawa; un giornale satirico a
Parigi, ci rendiamo conto che sono proprio i luoghi della banalità democratica ad essere stati attaccati.
Sono gli snodi
della nostra ragnatela di rapporti
comuni, in cui si manifestano appunto le convinzioni e il nostro vissuto
democratico di progresso e di libertà: la libertà di studiare; di conservare la
memoria; di incontrarsi e di consumare piacevolmente; di esercitare la
democrazia rappresentativa; di scrivere e di informare.
E’ dunque vero che,
come ha scritto il direttore di “La Repubblica” Ezio Mauro: “Oggi ciò che noi
siamo è ciò di cui moriamo?”
La prima reazione è
di paura, di sgomento, di atavica
inquietudine.
Proprio per questo però non possiamo, perché non
vogliamo, farci trascinare dalle
sensazioni di una radicale vulnerabilità.
L' immagine,
insostenibile, del poliziotto Ahmed, francese e musulmano come gli attentatori, finito vigliaccamente mentre era già per
terra, inerme e ferito – e che è anche
l' unica immagine del massacro - diventa
quella decisiva. Perché tutti abbiamo una vita che potrebbe esserci strappata,
rapinata dall’odio di altri uomini, e perché non c’è niente di più umano che
chiedere pietà al proprio carnefice.
E dunque davvero
possiamo dire che: "siamo
tutti Ahmed"; ma, proprio
per questo, affermiamo che "non siamo tutti Charlie Hebdo".
Non lo siamo, - ed è
difficilissimo sostenerlo oggi, con quei
dodici morti massacrati in redazione e i
cinque successivi, nello sdegno universale - perché le vignette anti-
islamiche (e anti-cristiane, e
anti-ebree) che pubblicava erano non
allegre, non divertenti, laddove l’allegria e il
divertimento sono allusione e leggerezza, e nemmeno satiriche, ma erano solo
blasfemia, facile trasgressione, una
marmellata senza rispetto, di nulla e di nessuno.
Non lo siamo perché crediamo
che la libertà d’espressione sia, certo, il fulcro di una moderna democrazia, ma crediamo anche che questa stessa
libertà non sia un diritto assoluto, e che termini dove inizia quella del mio
simile.
Non lo
siamo perché
crediamo che la libertà sia invece una
responsabilità, un’opportunità legata strettamente a un dovere morale, che deve
perciò tenere conto che anche il suo esercizio ha una misura, dei limiti.
Limiti che non
riguardano affatto la paura di
ritorsioni per quello che si dice, si scrive, si disegna, si filma – che è la
caratteristica dei vigliacchi, non delle persone libere – ma la responsabile
e attenta valutazione preventiva
dell’impatto politico e sociale di quanto si dice, si scrive, si disegna, si
filma.
Come ci ricordava
lo storico Tzevan Todorov, sempre su “La Repubblica”, : “… il vero pilastro della democrazia non è la libertà di stampa, ma l’idea
che in un sistema democratico ogni potere ha delle limitazioni”.
Non è in atto uno
scontro di civiltà, e proprio noi occidentali, cresciuti nel rispetto della
laicità e del relativismo, dobbiamo assolutamente combattere contro ogni
tentativo di radicalizzare un conflitto che può scavare un solco
insormontabile. Non siamo all’alba di una nuova Battaglia di Lepanto. Questo
timore rischia di fare proprio il gioco
degli attentatori, perché è appunto questo il vero obiettivo: mostrare che si
tratta di uno scontro di civiltà.
Ed è necessario al
tempo stesso ricordare sempre che nessuna pretesa libertà – di una frase, di un
disegno, di una macchina da presa – può venire prima del dialogo, della
tolleranza, del reciproco rispetto: i valori che realmente definiscono noi occidentali e che costituiscono i
veri obiettivi degli integralisti.
Senza le vignette
di Charlie Hebdo, i fanatici
avrebbero trovato altri obiettivi e pretesti per colpire, perché è proprio
l’assenza di un movente razionale a fare di un uomo un fanatico. Dobbiamo però
porre la massima attenzione a non sostenere le contrapposizioni, a non far diventare un baratro il solco già aperto delle diverse identità che
(s)compongono le società odierne.
Perché è proprio
questo che equivarrebbe a fare il gioco dei distruttori.
Sappiamo che anche
questi terroristi, così feroci, sono francesi: di quelli che “non ce l’hanno
fatta”, le “scorie” dell’integrazione degli immigrati dalle colonie in un Paese
dove l’integrazione è però in massima parte riuscita, come proprio la presenza,
e la morte, del poliziotto Ahmed dimostra.
Il brodo di coltura
è anche in una palude fatta di mancanza
di lavoro che troppo spesso è un’assenza totale; di repressione; di
disuguaglianza; di imprecazione e di dileggio reciproco del credo altrui.
E' insomma nelle
mille questioni culturali aperte nei nostri Paesi che nascono e prosperano il
fondamentalismo e il terrorismo, che certo hanno origini forti e lontane, ma
che crescono da noi, e dunque la palude va affrontata con le nostre armi, prosciugandola, non alimentandola.
Se dobbiamo
cambiare è andando in questa direzione, e non respingendo, incattivendoci,
asserragliandoci.
E se è possibile, e
verosimile, che ognuno di noi può diventare un bersaglio potenziale, quello che possiamo fare è proprio questo:
continuare nella lettura, nella scrittura, nel dialogo, nel confronto, nella
solidarietà, nel lavoro politico che combatte le disuguaglianze, e accetta le
diversità rispettose, con rispetto.
Giancarla Babino, 10 gennaio 2015